Valentia

Dalla fondazione del Municipium  all' Età Repubblicana. 

L'interesse dei Romani per la grecità meridionale e la Calabria in particolare si manifesta più specificamente dopo la III guerra sannitica (298-290 a. C.) e dopo la morte di Agatocle (289 a. C.). Vi è notizia certa della presenza, intorno al 282, di un presidio romano a Reggio, imposto per tutelare la città da Lucani e Bretti.   A partire dal 270 a. C. in poi, i rapporti tra Roma e la grecità calabrese migliorarono, fino alla fine della I guerra punica. Anzi la stessa Locri, durante le guerre contro i Cartaginesi, diventa un'importante alleata navale di Roma. Quanto ad Hipponion, l'interesse  si manifesta chiaramente in termini di amicizia e di difesa; nel 218 a. C., secondo la testimonianza di Livio, Roma difende l'ager vibonensis dalle minacce dei Cartaginesi che più volte vi erano penetrati. Non è molto chiaro se la città fosse a quel tempo in mano dei Bretti o se fosse già sede di un presidio romano. Strabone e Stefano di Bisanzio tramandano che, al tempo della deduzione della colonia, Hipponion era in mano ai Bretti e Livio afferma che l'ager, su cui i Romani fondarono la colonia, era vicino ai Bretti, che avevano preso la città ai Greci. Nell'assenza di dati concreti è il caso di riconoscere che, per quel che riguarda la storia di Hipponion, sappiamo molto poco del periodo che va dalla metà del IV sec. a. C. all'episodio annibalico, perciò non rimane altro che guardare ai rapporti tra Romani, Hipponiati ed il condottiero cartaginese, inserendoli nel quadro più generale della politica romana in Magna Grecia e nel Bruzio.

La politica di Roma nei riguardi delle città greche del Bruzio era caratterizzata da un atteggiamento “moderato” che si esprimeva con la stipula di foedera , che, entro certi limiti, assicuravano alle poleis autonomia ed indipendenza. La stessa Lo ri e forse anche Reggio diventano sodi navales di Roma. Ma con le defezioni avvenute durante la guerra annibalica, Roma cambia atteggiamento e tra il 194 ed il 192 deduce colonie (Crotone, Tempsa, Copia e Valentia) nel sito delle città greche, ormai in decadenza, fiaccate sia dal dominio brettio che dalle lunghe attività belliche, destinando alla colonizzazione l'agro turino e quello bruzio, che sono così trasformati in ager publicus populi Romani.

Gli storici contemporanei, ormai, in maniera unanime, accettano il 194 a. C. come data della deduzione, sul sito della greca Hipponion, della colonia latina col nome di Valenti. Due anni dopo, nel 192, la deduzione viene completata. Ha suscitato invece discussioni la notizia di Velleio Patercolo secondo la quale i Romani avrebbero dedotto una colonia già nel 237 a. C. Alcuni considerano la notizia non attendibile, attribuendola ad un errore dello storico o ad una disinformazione delle sue fonti; altri pensano che si riferisca ad un omonimo sito geografico; altri ancora ritengono che la notizia ben si concilia con il periodo in cui Roma aveva inviato presidi in alcune città del Bruzio.   Anche per i Romani come per i Greci, nella scelta di Hipponion come colonia e più tardi municipium, sicuramente ha giocato un ruolo importante la topografia del sito. Collocata su un pianoro collinare a circa 500 m. slm e in ottima posizione strategica, che le consente il controllo su tutto il territorio circostante ed un facile accesso alla viabilità principale, Valentia, grazie alla sua posizione geografica, controlla a Nord l'ampio tratto di costa del golfo lametino, a Sud tutta la piana di Matauros, via obbligata verso lo Stretto. Inoltre il suo territorio è parte integrante di un ricco paesaggio silvo-pastorale, costituito com'è da una stretta fascia costiera che si protende sul mare con piccoli capi e punte, e da pianori che, dalle propaggini montuose della Sila (grande riserva di legname e pece), scendono verso la piana, dove viene praticata l'agricoltura. A ciò si aggiunga la presenza del porto ( già oggetto di molta attenzione da parte di Agatocle), che costituisce una via fondamentale nel traffico marittimo della costa tirrenica.   La città, perciò, possiede tutte le peculiarità richieste dai Romani per la deduzione di una colonia: un polo strategico a guardia di una zona costiera, che domina un retroterra adatto allo sfruttamento agricolo . L'istituzione della colonia di Valentia va intesa proprio come parte integrante del sistema difensivo costiero romano, istituito già al tempo delle lotte annibaliche.

Da Livio conosciamo i particolari della colonizzazione di Valentia: dai triumviri Q. Nevio, M. Minucio e M. Furio Crassipede furono inviati nella città 3.700 fanti e 300 cavalieri, ai quali dovevano essere assegnati 1530 iugeri di terreno.

Si è discusso sulle assegnazioni terriere ai coloni romani che, confrontando il caso di Vibo con quello di Copia, da più parti sono esigue: se per quest'ultima si è pensato alla presenza di due insediamenti seppur vicini, per Vibo si è supposta una mancata utilizzazione di tutto il territorio, che, in parte, sarebbe stato lasciato in mano di Bretti e Greci. Ciò si basa anche sull'ipotesi che l'insediamento romano non avesse sostuito completamente quello precedente. Il fatto che i Romani non avessero sottratto a Bretti e Greci un così ricco territorio, sembra in netto contrasto con le direttrici principali della politica romana nel Bruzio, anche alla luce del passo di Dionigi di Alicarnasso, secondo il quale c'era stata, da parte dei Bretti la cessione a Roma di metà della Sila. Il brano pone un problema cronologico, se il fatto in questione debba riferirsi ad un momento precedente la prima guerra punita, o se sia connesso con la cinta di fondazione della colonia latina di Valentia; nel qual caso potrebbe di molto agevolare la comprensione della nostra problematica. Infine non è da trascurare il fatto che le più recenti indagini archeologiche hanno in parte modificato l'ipotesi, a suo tempo posta, che i due insediamenti di Vibo, quello greco e quello romano non si fossero sovrapposti l'uno sull'altro.

La via Annia-Popilia    Dopo la guerra sociale si attua il processo di municipalizzazione che ha inizio intorno all'89 a. C. fin oltre l'età cesariana, e Valentia diventa un municipium, con regime di autonomia ed ordinamento quattuorvirale. Al suo interno si rafforza la classe dei municipales, cui erano affidate varie cariche pubbliche. Certo grande impulso avrà il municipium vibonese dalla costruzione della via Annia-Popilia che, da Capua a Reggio, assicura il collegamento continuo tra Roma e la Sicilia, anche attraverso il Bruzio.   Negli itineraria romani, siano essi picca, o semplici elenchi nominativi, Vibo Valentia è indicata come statio, con vari nomi, e con qualche divergenza di distanze. La conferma archeologica che la via Annia Popilia passava per Valentia è costituita dal miliario romano rinvenuto, nel 1952, in modo fortuito a S. Onofrio, nei pressi dell'attuale Vibo Valentia; su di esso figura, oltre all'indicazione in cifre romane della distanza (CCLX), anche il nome di Annius, identificato col pretore T. A unius Rufus , che aveva provveduto a completare la costruzione della strada, iniziata in precedenza dal console P. Popilius Laenas. L'identificazione esatta del luogo di rinvenimento e la certezza che il miliario fosse in giacitura primaria, vista la presenza del basolato originale attestato negli atti di archivio della Soprintendenza Archeologica della Calabria, sono punti fermi per l' ubicazione del tracciato della strada, nei pressi di Valentia.    La via si snodava dal fiume Angitola, lungo la mulattiera tuttora esistente denominata “Via Grande”, e, attraverso il cosiddetto Piano degli Scrisi, arriva in contrada Vaccarizzu, dove appunto è stato rinvenuto il miliario prima descritto, posto a circa 4 miglia (cioè circa 6 km.) da Valentia. Da qui la strada, penetrando in città attraverso la porta Nord, giunge nella località S. Aloe, in coincidenza dell'omonima via. Dopo avere attraversato la città, secondo un percorso al momento non precisabile, la strada giunge al limite Sud-Ovest del centro urbano, da dove si dirige verso Gioia Tauro.   Il passaggio della via Popilia attraverso Valentia si spiega con la morfologia del terreno, poiché la zona in cui è ubicata Vibo Valentia coincide con un'area che permette un tracciato di crinale ed ortogonale alla città, senza l'attraversamento di alcun corso d'acqua.

Le notizie storiche sulla città, relative al periodo compreso tra la fondazione della colonia e la fine dell'età repubblicana, permettono di delineare un quadro fiorente di vita  nel quale si attua il processo di completa romanizzazione.

Una fonte storica che ha visitato personalmente ed in più occasioni la città è Cicerone: l'oratore, sia nelle Verrine che nell'epistolario, accenna più volte alla sua presenza a Vibo e nel territorio. In relazione a Verre, Cicerone, per dimostrare come il pretore era venuto meno ai suoi doveri, racconta che i cittadini di  Valentia, poiché subivano sempre più frequenti incursioni e saccheggi da parte dei banditi che si annidavano nell'ager Tempsanus a Nord del sinus Vibonensis, si erano rivolti fiduciosi a Verre, in quel periodo pretore in Sicilia, affinché la città venisse liberata da questo flagello. Ma Verre non li aveva ascoltati. La genericità della notizia non permette di stabilire se le incursioni avessero interessato anche la città o solo il territorio, la presenza di quei predatori è stata invece connessa con la rivolta servile capeggiata da Spartaco. Ed ancora in due occasioni, nel 58 e nel 44 a. C., Cicerone, in grave pericolo, chiede e ottiene ospitalità presso la villa del suo caro amico vibonese Vibius Sicca.   Molti studiosi, sulla scorta di resti archeologici relativi a ville rinvenute nel territorio di Valentia, hanno tentato l'identificazione della villa di Sicca presso cui era stato ospite Cicerone. Tra essi il Pesce, che credeva di avere individuato la residenza di quel ricco personaggio in un gruppo di monumentali resti archeologici, rinvenuti casualmente nel 1930 a Vibo Marina, durante lo scasso per la galleria ferroviaria tra S. Venere e Pizzo. L'Archeologo connetteva questo rinvenimento con un complesso che in anni passati aveva restituito alcune statue, tra cui una copia dell'Artemide di Dresda e dell'Arianna addormentata. Le sculture, tutte di ottima fattura e provenienti da questa sontuosa villa, si datano a partire dall'età claudia e fino al III sec. d. C. e di recente sono state oggetto di studio. Tra gli altri, è presente un busto femminile di eccezionale qualità, di lucido basalto, proveniente dalle cave dell'Africa settentrionale e databile ad età claudia; l'opera testimonia una committenza di grande cultura e di elevate possibilità economiche.   Nel corso di recenti indagini archeologiche, in località S. Venere di Vibo Marina, è emerso un settore di necropoli, molto probabilmente da connettere alla villa pubblicata dal Pesce, che cronologicamente si data al II-III sec d. C.; si ha ragione di credere che si tratta del settore riservato all'elemento servile del complesso ma, al momento, non si hanno elementi concreti per ipotizzare l'attribuzione della villa a Sicca.

L'amicizia di Cicerone per un esponente della nobilitas della città qual'era Sicca, è stata giustamente considerata una prova del fatto che il ceto abbiente di Valentia, già nel I sec. a. C., avesse stretto rapporti direttamente con Roma. Del resto è attestata la presenza, nella città, di Agrippa, genero di Augusto, di cui è noto, proveniente da Valentia, un ritratto marmoreo, databile ad età augustea; a Vibo era la fornace (figlina ) di Lepida, nipote di Agrippa, confermata dalla presenza di bolli su mattoni; spesso, accanto al nome di Lepida, compare anche quello di Agrippina, non sappiamo se figlia o nipote di Agrippa; alla sua morte, le fabbriche vibonesi vengono ereditate dai figli Gaio e Lucio Cesare, e anche, per loro tramite, dallo stesso Augusto.

La città assume un ruolo importante durante le guerre civili, e si guadagna i favori di Cesare ed Ottaviano perché offre ad entrambi l'appoggio indispensabile del suo porto, come base per le operazioni, condotte sullo Stretto, contro Pompeo. Dallo stesso Cesare, ma anche da Appiano apprendiamo, infatti, che nel 49 a. C. il porto di Valentia fu teatro di uno scontro navale:   Cassio, capo della flotta pompeiana aveva incendiato le navi di Cesare che sostavano nel porto di Messina, e poi, proseguendo verso Vibo, tentò di incendiare le altre navi che lì sostavano ma, il pronto intervento dei veterani impedì l'incursione, costringendo lo sconfitto Cassio alla fuga.   Il favore di Cesare verso la città è attestato in un'epigrafe nella quale i cittadini di Valentia manifestano la loro riconoscenza a Giulio Cesare che, per l'anno 46, aveva accettato di diventare patronus della città. Per l'anno 43 a. C., secondo la testimonianza di Appiano, Vibo, insieme con Reggio, compare nell'elenco delle città i cui territori sarebbero stati oggetto di assegnazioni ai veterani, da parte di Ottaviano. Nello scontro che segue tra Ottaviano e Pompeo, nelle acque dello Stretto di Messina, Vibo, ma anche Reggio, offrono il loro porto ad Ottaviano che vi insedia il suo quartier generale, in cambio della promessa di escludere le due città dalle assegnazioni di terreni ai veterani. Così Ottaviano si garantisce la fedeltà dei due municipi, fedeltà necessaria per l'importanza strategica dei loro porti.   Alle fonti storiche si aggiunge anche una testimonianza archeologica della presenza delle truppe di Pompeo a Vibo; si tratta di una ghianda missile di piombo, rinvenuta a Vibo Valentia, sulla quale è l'attestazione epigrafica dell'acclamazione ad Imperator di Salvidieno Rufo, capo della legio X Fretentis e legato di Ottaviano contro Sesto Pompeo, poiché Salvidieno aveva offerto protezione dalla flotta pompeiana alla costa italica.

Dal punto di vista archeologico, gli scavi eseguiti nel corso degli anni nel centro urbano hanno messo in evidenza un vasto settore della città romana nella località S. Aloe, scavato per la maggior parte alla fine degli anni settanta, su cui solo di recente è stata ripresa l'indagine. Le testimonianze archeologiche relative ai primi secoli di vita della colonia nell'età repubblicana sono scarse perché meno indagate e spesso oggetto di recuperi occasionali. Ma la scarsezza dei resti non implica necessariamente un minore vigore o benessere della città, anzi, sembra essere proprio questo il periodo in cui si pongono le basi per le fiorenti attività economiche che si consolideranno nei periodi successivi: lo dimostrano soprattutto il rinvenimento di alcune fornaci ed i resti mobili rinvenuti in varie occasioni (monete, materiale anforico, bolli, epigrafi ecc.) riferibili al periodo in questione.

La necropoli scavata in località Piercastello testimonia le prime fasi di fondazione della colonia; dei tre periodi di utilizzo della necropoli prenderemo in considerazione solo gli ultimi due, relativi all'epoca che ci interessa: il secondo periodo (databile dalla fine del III al I sec. a. C.) ed il terzo periodo (compreso tra la fine del I sec. a. C. e la fine del I sec. d. C.). Intorno al II sec. av. Cr., la tomba a camera viene riutilizzata come fossa comune: insieme a cinquanta scheletri umani si sono rinvenuti anche quattro scheletri di animali, appartenenti a tre cani e ad un cavallo; tutti i corredi sono molto poveri, tranne quelli relativi a tre tombe, mancano comunque materiali di importazione. Nel I sec a. r., la necropoli viene ricoperta da uno strato alluvionale di fango e detriti. Al periodo compreso tra il I sec. a. C. ed il I sec. d. C. appartengono le sepolture più tarde, segno che la necropoli in questo periodo viene abbandonata, forse perché soggetta a continue frane ed alluvioni, come dimostra la stratigrafia. Il riutilizzo della tomba monumentale come fossa comune e la presenza in essa di corpi di animali, ha permesso di avanzare due ipotesi: a) che la città di Vibo Valentia, tra la fine del III e l'inizio del II sec. a. C. fosse stata colpita da un'epidemia che avrebbe costretto i cittadini, a seppellire tutti, uomini e animali, in fosse comuni; b) che la fondazione della colonia latina non sia stata indolore per gli abitanti di Vibo, ma abbia comportato eccidi della popolazione residente. Questi ultimi sarebbero testimoniati dalla fossa comune di Piercastello, come del resto tramandano le fonti antiche, che segnalano grosse perdite dei Bretti in seguito alla guerra punica. Da segnalare, durante lo scavo della necropoli il rinvenimento di parecchio materiale anforico costituito, in minor parte da anfore tipo Dressel 1A, 1B ed in numero maggiore di Dressel 2/4, (che coprono un arco cronologico compreso tra il II sec. av. Cr. ed il I d. Cr.); la presenza massiccia del suddetto materiale testimonia una produzione vinaria, certo, molto abbondante.

L'urbanizzazione repubblicana.   Resti archeologici relativi a settori urbani databili ad età repubblicana sono stati rinvenuti a S. Aloe, in Cancello Rosso, in via Omero, alla Terravecchia in via Milite Ignoto.   A S. Aloe, è stata accertata, nel corso degli anni settanta, la presenza di strutture abitative di età repubblicana. Purtroppo, delle strutture in questione, non è rimasta agli atti nessun tipo di documentazione, ma si deduce che sui resti di queste abitazioni si sono impiantate le domus databili all'età imperiale, attualmente i resti più monumentali della città romana. Da questa località proviene inoltre un'epigrafe che si integra con un'altra dell'ex collezione Cordopatri, ora al Museo di Vibo Valentia; entrambe sono di grande interesse per la topografia e la storia della città in quanto attestano, in modo celebrativo, la presenza dei quattuorviri iure dicundo che sovrintendono alla sistemazione delle mura di cinta e delle porte di Valentia. Gli studiosi hanno tentato di datare il periodo in cui furono effettuati i suddetti rifacimenti; alcuni hanno pensato all'età cesariana (48 a. C.), altri al periodo in cui Valentia aveva concesso il suo porto ad Ottaviano contro Pompeo.   In località Cancello Rosso sono state rinvenute almeno tre fornaci per la produzione di ceramica e mattoni ed un impianto per la decantazione dell'argilla. Collazionando i dati dei vari interventi ne deriva un quadro stratigrafico articolato. Nelle aree circostanti l'attuale sede comunale sono presenti almeno due fasi di uso, ben distinte cronologicamente: in età greca, l'area era stata destinata a necropoli (già nota come necropoli occidentale di Hipponion, dalla fine del VII fino alla fine del IV sec. a. C.); in età romana e fin dall'inizio del II sec. a. C., sorge un quartiere ceramico, per la presenza accertata di tre fornaci, abbastanza vicine tra di loro, di cui una, quella prospiciente la via Kennedy, è connessa con un impianto per la decantazione dell'argilla. I dati di scavo e lo studio della tipologia della fornace rinvenuta in via Popilia permettono di stabilire che la costruzione e quindi l'attività del quartiere ceramico in questione hanno inizio nel II sec. a. C. per cessare nel II sec. d. C., e che tutta la zona viene poi frequentata, fino al V-VI sec. d. C.   In via Omero è stato messo in luce un muro in opus reticulatum che a Vibo Valentia costituisce l'unico manufatto costruito con questa tecnica.   Alla Terravecchia, in via Milite Ignoto, due distinti interventi hanno individuato strutture abitative relative a due fasi cronologiche: quella più antica, riferibile alla deduzione della colonia romana, è costituita da muri in piccole pietre legate con malta e pavimenti in cocciopesto; la più recente, databile al I sec. d. C., cui appartengono strutture in laterizi e malta, una colonnina ed una semicolonna anch'esse in laterizio, con la pavimentazione sempre in cocciopesto. Tutta la zona sembra essere stata abbandonata intorno alla prima metà del II sec. d. C., forse a causa di un evento traumatico, come indurrebbe a pensare il crollo della colonna in mattoni. Tra il materiale mobile, sono state rinvenute in gran quantità anfore del tipo Dressel 2/4 ed un consistente numero di lucerne databili tra I e II sec. d. C.

 

Le emissioni monetali.   Testimonianze del primo impianto della colonia sono anche le emissioni monetali di Valentia, che secondo gli studi, costituiscono una netta cesura con le emissioni precedenti sia della città greca che del periodo brettio, evidente segno questo della mutata situazione politica.   Purtuttavia nel repertorio tipologico delle serie e nell'organizzazione della produzione si possono cogliere influenze della tradizione greco-brettia della città.   Lo studio metrologico porta alla conclusione che le emissioni di Valentia non erano in grado di soddisfare le esigenze finanziarie del centro che, all'epoca dell'impianto della colonia, era economicamente impegnato in spese edili e militari. Inoltre, la presenza di frazioni di piccolo taglio sembra dovesse servire il mercato locale, se non addirittura “cittadino”. Tutto sommato è necessario riconoscere che per Valentia l'emissione di una moneta, pur limitata nel metallo e svilita nel peso, con un proprio nome ed un tipo che ne costituisce l'emblema, rappresenta una forma di prestigio e di privilegio.

 

Completa il quadro dell'età repubblicana la presenza, in una collezione privata vibonese, di uno dei rari esemplari di ritratto databile a quell'epoca. Si tratta di una testa che, originariamente, era inserita in una statua togata e che attesta, nella manifattura, stretti contatti con la cultura artistica di Roma dell'inizio del I sec. a. C.   Dall'esame dei pur esigui rinvenimenti archeologici e dalla loro connessione con le notizie storiche delle fonti si riesce a definire, seppure a grandi linee, il quadro della vita politico-economica di Valentia, dai primi anni della colonia fino a tutta l'età repubblicana.   La deduzione della colonia non fu indolore per gli Hipponiati, e vi furono anche difficoltà economiche, legate alle nuova condizione politica della città. Tuttavia, fin dai primi secoli di vita del municipium, è evidente l'esistenza di una nobilitas, di una classe dirigente che riesce a collegarsi direttamente con Roma. Lo attesta, tra l'altro, la presenza, a Vibo di Q. Laronius , che legatus di Agrippa nel 36 a. C., diviene consul suffectus , a Roma nel 33 a. C.   Il bollo col suo nome, presente su molte tegole rinvenute in gran numero a Vibo e in un territorio limitrofo, testimonia la proprietà, da parte di Laronius, di una industria molto produttiva. In città, comunque, parecchie fabbriche di laterizi sono attestate per l'età tardo repubblicana. Il primo impianto della città è costituito, probabilmente, da abitazioni realizzate con pietre e pochi mattoni, mentre già in età tardo repubblicana qualche edificio sembra essere più curato: tutti sono caratterizzati dall'uso diffuso dei laterizi e della malta cementizia.   Certamente la città sembra ancora lontana da quella monumentalizzazione urbanistica che caratterizzerà i secoli immediatamente successivi.